UN "MONDO ALTRO", LA TRAGICA UTOPIA DI CALIGOLA IL FOLLE

ilgiornaledivicenza.it
27.10.2012
Antonio Stefani

TEATRO. Il 65° ciclo degli Spettacoli Classici volge al termine nel segno del suo direttore artistico. Dal testo di Camus il regista Nekrosius ha ricavato un allestimento studiato per l'Olimpico. Un grande Mironov

Vicenza. Nel settembre del 1970, per sette sere consecutive il Teatro Olimpico (ben più capiente di oggi, dato che si occupavano tutti i gradoni della cavea e i posti di platea) collezionò un filotto di esauriti, con una folla di giovani che veniva a vedere il "Caligola" di Albert Camus interpretato e diretto da Giancarlo Sbragia. Spirava ancora forte il vento del Sessantotto e lì, sul palco, stava un personaggio ventinovenne (creato nel 1938 da un autore appena venticinquenne) non molto distante da quei ragazzi che allora gridavano "vogliamo tutto". Ma Caligola vuole addirittura l'impossibile, luna compresa. Lo vuole perché il mondo del possibile, quella realtà di cui ha disperatamente preso coscienza da quando ha perduto la sua sorella e amante Drusilla, è un mondo in cui "gli uomini muoiono e non sono felici". E allora scatena la sua rivoluzione. Contro quel sistema di cui egli è paradossalmente il vertice in quanto imperatore romano, l'individuo più potente sulla terra. Poiché il mondo non (gli) va bene, lui lo mette spietatamente sotto processo. A cominciare da quello che gli sta attorno: senatori umiliati e condannati senza apparente motivo, le loro mogli costrette a prostituirsi, editti e delitti nefandi, gli dèi sbeffeggiati, analogo disprezzo riversato sulla logica, la filosofia, le arti.

È una libertà spaventosa e allucinata quella che sceglie Caligola, perseguìta a spese di tutti. È la suprema solitudine di un'anarchia sanguinaria che tutto nega, a partire dal senso comune per cercarne uno "altro", una verità alternativa all'assurdità della vita. Un senso che, però, non potrà essere nemmeno quello dello schifo assoluto e assolutista per qualsiasi valore codificato, la rottamazione dell'umanità, il calpestare ogni dignità altrui (pur ammettendo che, nella società rappresentata dalla corte, ci sia ben poca dignità da salvare). Caligola sa che in tal modo prepara anche la sua autodistruzione. Sa della congiura patrizia che finirà per toglierlo di mezzo, e non fa nulla per fermarla, anzi. Però Camus gli concede una grande uscita di scena, affidandogli due considerazioni illuminanti. La prima, mentre già le lame dei suoi giustizieri sono pronte, è quando riconosce la propria sconfitta, perché "la mia libertà non è quella buona". La seconda sta nel punto finale del dramma: esalando l'ultimo respiro, egli proclama la consapevolezza di entrare e restare "vivo" nella Storia. Perché, come afferma il suo intelligente antagonista Cherea, uno come Caligola "costringe tutti a pensare". In ogni tempo e in ogni luogo. Se per Camus, pur nel variare delle versioni susseguitesi prima e dopo il debutto parigino del 1945, l'essenziale rimane descrivere il percorso intellettuale che si svolge nella mente lucidamente folle del protagonista, il copione di "Caligula" si presterebbe pure, date le sue componenti cruente, a essere sfruttato in un contesto da Teatro della Crudeltà. Eimuntas Nekrosius, nell'allestimento fornito ieri sera in un'edizione studiata per l'Olimpico dopo quella presentata per la prima volta la scorsa stagione, sceglie un'impostazione ancora diversa: dove l'eroe negativo, lungi dal crogiolarsi nella macelleria psicologica e fisica che innesca, o in dibattiti ideologici, vive la propria rivolta come perseguendo un'utopia purificatrice da quelle che ritiene le miserie dell'esistenza.

Ed Evgenij Mironov, attore capace di restituire in disarmante semplicità il groviglio di ragioni che guidano le feroci azioni dell'imperatore, pare quasi un nobile Amleto che abbia scelto di "essere" scartando il "non essere". Il suo Caligola ha tratti di autentica, visionaria poesia e scatti di altruismo mentre abbraccia, con fredda determinatezza venata di intima commozione, l'inaudito compito di farsi tiranno per eccesso d'amore. Dotata dei tipici "segni" di Nekrosius quanto a essenzialità simbolica dei gesti e degli oggetti, vestita non di tuniche latine ma in fogge da romanticismo nordico, la rappresentazione scorre pervasa - altro marchio del regista lituano - da un flusso sonoro in cui le più disparate fonti (Händel, Wagner, un appassionato di musica può divertirsi a catalogarle) trovano sempre esatta e struggente collocazione. E tutt'intorno l'Olimpico è chiamato a evocare, attraverso uno sbalzato gioco di luci radenti, l'atmosfera severa del palazzo ove si consuma una tragedia quasi da camera, tanto spoglia di magniloquenza quanto vibrante d'una intensità profonda, sia in ciò che viene detto e sia in ciò che viene alluso con metafore ora forti, ora liriche. Sono tre ore, ma non sembra: l'unica difficoltà sta nella ginnastica che l'occhio dello spettatore deve compiere tra l'alto del proscenio, dove passa il testo in italiano, e la ribalta dove la solida compagnia del Teatro delle Nazioni di Mosca (e qui vale la pena di citare almeno la partecipe Cesonia di Maria Mironova) parla ovviamente in russo. Oggi si replica, ultimo appuntamento d'un denso 65° Ciclo di Classici