EIMUNTAS NEKROSIUS: CALIGULA DI A. CAMUS

Erica Tournon
07.07.2011
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Era un uomo molto alto, dal fisico nervoso, calvo. Aveva occhi incavati e penetranti. Il suo sonno non durava più di tre ore per notte, turbato da strane visioni. "Una volta, tra le altre, gli sembrò di trovarsi a colloquio con lo spettro del mare. Così, generalmente, per buona parte della notte, stanco di vegliare o di stare sdraiato, ora si metteva seduto sul suo letto, ora vagava per gli immensi portici, attendendo e invocando il giorno".

Era cresciuto tra i legionari, indossato le loro scarpe, da loro ricevuto il nome. Questo è Caligola, ritratto da Svetonio nelle Vite dei Cesari.

La stessa immagine inquieta ritornerà, molto tempo dopo, nel dramma di Camus, messo in scena il primo ed il 2 Luglio scorsi al Festival Internazionale di Villa Adriana, con la regia di Eimuntas Nekrosius.

Nonostante l'estro geniale di tutte le componenti, dal regista, al testo, alla cornice suggestiva, il risultato non sconvolge. Come ammette lo stesso regista nell'intervista a cura di Rodolfo Di Giammarco (Repubblica dell'1/07/2011): "Caligula non è un testo tradizionale ma filosofico, e concede molte libertà sia al regista che agli attori. Ma resta un'opera difficile" (...) "Le parole e i pensieri di Camus sono molto profondi. Noi abbiamo usato molti mezzi espressivi, e solo quando il senso di alcune battute restava impenetrabile, abbiamo effettuato piccoli tagli". L'estetica cerebrale di Camus mal si concilia con la suggestione emotiva ed icastica del miglior Nekrosius.

Caligola è un uomo diviso: la scena si apre sulla sua fuga, dopo la morte della sorella, amante, dea, Drusilla. Quasi una fuga dissociativa: ha perso il perno della sua esistenza, la sua vita emotiva. A questo punto la sua intera scala di valori è infranta: resta una smania d'impossibile, l'attaccamento ad un potere terreno che si fa sdegno e crudeltà. Caligola pretende la luna, la insegue, si fa egli stesso luna e Dio, Venere.

A segnare la perdita di individualità c'è un soprabito cremisi che Caligola dismetterà solo in una scena, bellissima: a colloquio con l'amico e poeta Scipione, tra i due nascerà un gioco, un'evocazione, nella quale l'imperatore ritroverà per un attimo la sua serenità.

Intorno al sovrano, interpretato Yevgeni Mironov, un manipolo di patrizi ed una scenografia in lamiera ondulata (peraltro opera del figlio del regista). Un’ambientazione un po'da regime sovietico, in cui l'uomo rinuncia alla sua dignità, sopraffatto dallo squallore circostante: l'attore urina in una scodella, i figli sono sacchi di iuta pronti ad essere gettati nella cuccia del cane, le matrone patrizie diventano oggetto delle voglie capricciose del sovrano.

Eppure c'è la musica: come un fondo d’umanità ancora vivo nel protagonista, temi di Wagner, Brukner, Haendel pervadono lo spettacolo senza interruzione, ma sempre solo come accenni, ripetizione di frammento che non arriva mai alla sua completa evoluzione.

Caligola morirà in una congiura, urlando "Alla Storia". Al momento di agire ai cospiratori, che in fondo riconoscono in se stessi le bassezze del protagonista, tremano le gambe, gambe che Nekrosius raffigura scenicamente come lance di cartapesta con una "caliga" in fondo appunto, a mo'di scarpa, a sottolineare l'identità tra la natura profonda di Caligola e dei suoi subalterni. Sarà lo stesso Caligola ad incitarli. Morirà tra i frammenti di specchio branditi dai congiurati, nei loro giochi di luci: quasi il suicidio (tema caro a Camus) di un Io frammentato.

Da sempre ci si appoggia a diagnosi organiche per descrivere la personalità di questa figura storica: epilessia, saturnismo, ipertiroidismo sono le patologie, talune storicamente documentate, altre supposte, da cui sarebbe stato affetto, quasi a voler esorcizzare la paura verso tratti dell'animo umano ascrivendoli ad una categoria diagnostica. Ma il Caligola di Camus più di ogni altro non è un uomo malato: Caligola è un cuore sovrano e ferito, un'emotività negata.

"Finché Caligola è vivo, io sono alla completa mercé del caso e dell'assurdo, cioè della poesia."
(Discorso di Cherea ai senatori, Albert Camus, Caligula, 1941).